Dal ciclismo eroico di Binda e Guerra all'arrivo di Bartali e Coppi

17-06-2020 10:26 -

Mentre la bicicletta in città era considerata un pericolo pubblico il ciclismo eroico di Binda e Guerra. Nel 1931 la prima maglia rosa, nel 1933 fu istituito il Gran Premio della Montagna e apparve la carovana pubblicitaria in un clima da fiera paesana. Sotto ogni dittatura lo sport sfruttato come strumento di propaganda e aggregazione delle masse

Anni Trenta:

poche auto, poche moto e tantissime biciclette. Subito alcune cifre. In Alto Adige (tanto per fare un esempio) 270 mila abitanti, 21600 biciclette in circolazione, occhio e croce una ogni 12 abitanti. La percentuale è ancor più ridotta se togliete 60 mila bambini e 25 mila anziani (prima dei 10 anni e dopo i 60 anni quasi nessuno a quel tempo pedalava).
Questo censimento della bicicletta – se così si può dire – risale al 1935 quando il regime fascista introdusse la tassa di circolazione, in un certo senso il bollo che oggi paghiamo per l'auto: a quel tempo 10 lire che corrispondono alle 15- 16 mila lire del Duemila o a 8 euro dei nostri giorni. Si pagava la tassa agli uffici comunali: sigillo e contrassegno da applicare sul tubo anteriore del telaio. Piovevano le contravvenzioni e succedevano anche numerosi incidenti tanto è vero che il giornale del tempo – La Provincia di Bolzano – dopo aver definito i ciclisti “quelli del cavallo d'acciaio” –tracciò un quadro della situazione non solo allarmante ma direi allucinante. Ecco la prosa del cronista: “I ciclisti sono una vera piaga per il traffico cittadino, danno un largo contributo alla rubrica delle disgrazie. L'invenzione della bici ha rappresentato un guaio per l'umanità.”
Puntando invece l'obiettivo sul ciclismo agonistico bisogna premettere che il rapporto fra sport e politica acquistò una forma organica soprattutto nell'esperienza italiana del fascismo che elevò l'attività sportiva a strumento di aggregazione delle masse popolari. Nelle scuole di ogni ordine e grado vennero incrementate educazione fisica e attività sportiva. Organizzazioni come l'opera nazionale dopolavoro (OND) avvicinarono gli strati popolari per instaurare una nuova filosofia del tempo libero. “Lo sport per tutti” era lo slogan del tempo. Non solo aggregazione delle masse ma anche strumento di propaganda sfruttando le imprese dei grandi atleti: italiani campioni del mondo di ciclismo con Binda e Guerra, azzurri secondi alle olimpiadi di Los Angeles nel 1932 dietro gli USA, Paola Wiesinger campionessa mondiale di sci, Primo Carnera campione del mondo dei pesi massimi nel '33, italiani campioni del mondo di calcio nel '34 e nel '38. Il modello fascista nel mondo dello sport fu successivamente copiato da altri regimi dittatoriali, dal Terzo Reich che esaltò regime hitleriano e razza pura alle olimpiadi di Berlino del '36, dall'Unione Sovietica e dai Paesi satelliti dell'est europeo nel secondo dopoguerra: sport dunque per aggregare le masse e propagandare i fasti del regime.

Quando il ciclismo era più popolare del calcio

Nei primi anni '30 il ciclismo era più popolare del calcio nel nostro Paese. Alfredo Binda aveva già vinto quattro Giri d'Italia,stava monopolizzando la corsa a tappe, non aveva avversari. Gli organizzatori del Giro lo pagarono nel 1930, gli diedero 22500 lire, il premio della vittoria finale, per restare a casa, per aprire la strada del successo ad altri corridori. 22500 lire erano oltre cento stipendi di un operaio che a quel tempo guadagnava 200 lire al mese. Per un impiegato 270, per un dirigente 350 lire. Un chilo di pane costava 2 lire, un chilo di carne 16 lire, il giornale 25 centesimi. A Binda “gran signore” del ciclismo il grande pubblico preferiva il mantovano e battagliero Learco Guerra, battezzato la “locomotiva umana”. Nel mondiale del 1931 – una cronometro a Copenaghen di ben 170 km – Guerra conquistò il titolo iridato a quasi 35 di media. A oltre 4 minuti francesi e svizzeri, a quasi 9 minuti Binda che si rifarà l'anno successivo a Rocca di Papa vincendo il suo terzo mondiale. A catalizzare la passione popolare per il ciclismo era a quel tempo il Giro d'Italia. Dalle 12 alle 15 tappe anche di 280- 290 chilometri: strade polverose o sterrate, nelle giornate di pioggia all'arrivo i corridori sembravano maschere di fango, non c'era ancora il cambio di velocità ma sul mozzo della ruota posteriore venivano montati due pignoni, uno a destra e l'altro a sinistra, uno per discesa e pianura, l'altro per la salita, per cui i corridori scendevano di bici, smontavano e giravano la ruota prima di affrontare i passi degli Appennini o delle Alpi. Nel 1931 il leader della corsa indossò per la prima volta la maglia rosa in omaggio al colore della Gazzetta dello Sport. Il primo a vestirla fu Learco Guerra vincitore della tappa d'apertura da Milano alla sua Mantova.
Altra data storica il 1933. Viene istituito il Gran Premio della Montagna ma la prima tappa è una cronometro in piano di ben 62 km da Bologna a Ferrara: vince Binda a quasi 40 di media. E Binda si aggiudica anche altre cinque tappe e il suo quinto Giro d'Italia. Per restare al '33 appare la carovana pubblicitaria, sembra una sfilata di carri allegorici, un vero e proprio circo ambulante che lancia omaggi e prodotti vari sulle strade prima del passaggio dei corridori. Nelle sedi di tappa scene di fiera paesana: tanto per fare un esempio la corsa dei camerieri con vassoi e bicchieri pieni d'acqua. Giro e carovana fanno tappa per la prima volta a Bolzano. Siamo ancora nel '33. Non è una tappa di montagna: primo il belga Loncke. Il giorno successivo conclusione con la Bolzano- Milano di 284 chilometri: provate a indovinare chi ha vinto? Il solito Binda. Chiude la carriera Giovanni Gerbi all'onorevole età di 47 anni. Il 1934 è l'anno di Learco Guerra in sella alla mitica Ganna: vittorioso al Giro, vittorioso in ben dieci tappe
Siamo nell'anno olimpico 1936 quando l'astro nascente del ciclismo italiano Gino Bartali conquista il suo primo Giro d'Italia ( 10 vittorie di tappa per Giuseppe Olmo) per bissare il successo nel 1937 dopo un'impresa leggendaria: stacca tutti nella Vittorio Veneto- Merano, nella prima tappa dolomitica della storia ciclistica di casa nostra. Si va alla scoperta dei Monti Pallidi ma soprattutto si vogliono ricordare dal Pordoi al Falzarego le Cime Storiche, i fronti di guerra del 15-18. Al Giro d'Italia nel '38 e '39 è un altro campione, Giovanni Valletti, a firmare la doppietta. Bartali, detto il Pio per la fede incrollabile nella Madonna, non partecipa al Giro ma si allena per affrontare francesi e belgi al Tour di France. E' dai tempi di Bottecchia che gli italiani non arrivano in maglia gialla a Parigi. La grande impresa riesce a Bartali che farà il bis dieci anni dopo. Nello squadrone della Legnano il popolare Ginettaccio si trova fianco a fianco con n il campionissimo del futuro, con Fausto Coppi di Castellania, con il quale ingaggerà epici duelli negli anni del dopoguerra, negli anni della ricostruzione del nostro Paese infiammando gli entusiasmi popolari. A sorpresa però nel 1940 il “gregario” Coppi batte il suo capitano e conquista il primo dei suoi cinque giri d'Italia eguagliando il record di Binda. Quel giro del '40 fece tappa a Ortisei dove arrivarono insieme dopo le scalate dolomitiche Coppi e Bartali: la maglia rosa – come si conviene in questi casi – lasciò al suo capitano e rivale la gioia della vittoria. Quel giro si concluse a Milano il 9 giugno. Il 10 giugno 1940, nemmeno 24 ore dopo, dal balcone di palazzo Venezia a Roma Benito Mussolini (che non a caso aveva atteso la conclusione della Corsa Rosa con il popolo degli sportivi in festa) annunciò la sciagurata partecipazione dell'Italia alla seconda guerra mondiale accanto alle truppe di Hitler. Il resto – nella guerra e nello sport – è storia nota.

Carlo Dibiasi
IL CAMPIONE DI TUFFI
CICLISTA PER FORZA

Negli anni '30 abitava a Bressanone il campione di tuffi Carlo Dibiasi, il compianto papà del fuoriclasse Klaus. A Bressanone c'era un trampolino di tre metri. A Bolzano l'architetto che progettò il Lido non aveva previsto la piattaforma dei dieci metri. Solamente al lago di Monticolo (oggi meta turistica nel cuore di una bellissima pineta) c'era un castello di legno con le misure olimpiche. Per allenarsi Carlo Dibiasi partiva da Bressanone in bici, 40 chilometri fino a Bolzano e poi la dura salita verso Appiano e Monticolo su strade sterrate, un paio d'ore di semplici o doppi salti mortali dalla piattaforma dei dieci metri, quindi r ritorno a casa in bici con diverse salite fra Bolzano e Bressanone. Una volontà di ferro, un fisico d'acciaio. Con Otto Casteiner (il nonno di Tania Cagnotto) Carlo Dibiasi è stato il pioniere dei tuffi dal trampolino e dalla piattaforma nel nostro Paese. Alla sua scuola ha imparato ogni segreto il grandissimo Klaus.



Fonte: Franco Sitton