analisi, riflessione e valutazione

26-02-2015 14:44 -

Credo che lo sport sia una attività così diffusa tra i giovani perché crea emozioni. Crea l´emozione a livello puro, non mediato dalla razionalità e dalle idee; si sente un goal, si sente un risultato, si sente una vittoria, si sente una sconfitta, si sente il nervosismo prima di una partita.

Chi ha dei figli che fanno sport anche a livello bassissimo, vede che non dormono la notte prima, che non mangiano; e si domandano che senso abbia fare sport se porta a farti stare male. Conosco tantissima gente, io non sono tra questi, che fa la fila al Luna Park e paga anche per salire sulle montagne russe; io non credo che nessuno si senta bene sulle montagne russe, nel senso che non è un piacere gradevole come può essere fare un bagno in una vasca calda o stare in un parco; sulle montagne russe uno paga per sentirsi male ed è proprio così, perché quando uno scende velocissimamente si sente male. Tutto questo perché? Perché oggi si paga per sentire un´emozione.

Se si capisce questo si capisce perché un bambino, una bambina, nostro figlio, può sentirsi male prima di una partita e piacergli sentirsi male. Ma ci sentiamo male anche noi e non è che con gli anni questo passa, perché quando uno perde tre partite e va ad affrontare la quarta, sapendo che deve vincere a tutti i costi, non è che la mattina è rilassato, tranquillo, mangia bene; eppure vogliamo vivere così, vogliamo questo perché ci piace l´emozione.

La seconda riflessione è che lo sport si è diffuso tanto perché noi viviamo in società opulente, sedentarie, tecnologiche, intellettuali e l´attività fisica è fatta sempre meno, per cui l´unica attività per la maggior parte dei giovani è ballare o fare sport. Credo che questi due elementi ci debbano guidare per capire i fenomeni dello sport e soprattutto per parlare del valore educativo.

Io non sono di quelli che difendono lo sport a tutti i costi e affermano che lo sport ha un valore educativo. Io penso che lo sport può avere un valore educativo, ma può anche avere un valore diseducativo; come d´altronde tutte le realtà dell´essere umano.
Perfino la religione, e questo lo vediamo tutti i giorni sui giornali senza scomodare la storia; in nome di Dio si sono fatte e si fanno tutt´ora delle cose terribili, perché gli esseri umani non sono Dio.

Lo sport può fare di tutto, ha fatto di tutto e continuerà a fare di tutto, per cui credo che per dare un valore educativo allo sport occorre fare una lotta. La prima lotta è di resistenza. Resistenza all´opinione generale, cioè resistenza all´idea che se lo fanno tutti io non posso essere l´unico fesso che non lo fa. L´andazzo di oggi è così, tanto che il pensiero comune è che chi rispetta le regole non è corretto, ma ingenuo.

Occorre resistere anche alla frase famosa e diffusissima e che si ripete spesso che "bisogna vincere a tutti i costi". Non è vero: "bisogna vincere rispettando le regole", bisogna vincere senza fare doping, bisogna costruire società vincenti senza fare doping amministrativo, perché ha lo stesso valore falsificare con i soldi o con l´organismo; in entrambi i casi si falsificano le possibilità che un organismo o un´organizzazione ha; con il doping si falsifica una prestazione fisica, con false fatture si falsifica una possibilità economica, quando magari un´altra società non lo fa. A quel punto si crea il meccanismo per cui anch´io lo faccio, perché tutti lo fanno, che da origine a quell´altro meccanismo per cui nessuno è colpevole, perché tutti sono colpevoli e questo credo sia il pericolo più grande.

Bisogna resistere all´idea che certe cose siano inevitabili perché lo sport è diventato un business, un affare o un grande spettacolo. Bisogna resistere, perché altrimenti non sapremo resistere a tentazioni più forti; ad esempio trafficare cocaina ci darebbe molti più soldi che vincere un campionato, ma bisogna resistere anche perché non è vero che certe cose succedono solo negli sport professionisti, negli sport che fanno spettacolo e che vanno in televisione.
Infatti non è vero che c´è più violenza nei campi di serie A che nei campi dei dilettanti: chi ha giocato a calcio lo sa bene. Non è vero che i giocatori si arrabbiano di più quando giocano in serie A che non gli amici che si riuniscono per giocare nel club. Quando io giocavo nel club, c´era sempre qualcuno che se ne andava arrabbiato... e si giocava per zero lire.

Nel professionismo si gioca per fama, per soldi e succede meno e questo perché? Perché c´è più controllo: ci sono gli arbitri, le squalifiche, la televisione che in questo senso svolge un ruolo positivo, nel senso che quando c´è un fallaccio lo trasmettono molte volte in televisione, c´è il giudizio negativo della comunità: io credo che il giudizio della comunità sia una responsabilità enorme.

Infatti se noi pretendiamo che il giudizio negativo su tutti gli illeciti, sia di gioco che più gravi, sia a carico solo degli arbitri o dei giudici non c´è possibilità di cambiare le cose; non si può regolamentare tutto e dire che è solo un problema di arbitri, giudici o di federazioni. Oltre ad una giustizia sportiva è necessario che la comunità esprima la sua condanna morale altrimenti è molto difficile creare un´idea etica nello sport, come in qualsiasi altra cosa.

Credo sia questo il problema più grave di oggi: un atleta colto a fare uso di doping non può essere condannato solo dagli organi istituzionali sportivi, deve essere condannato dalla comunità, che non può trovare giustificazioni magari perché l´atleta è della sua squadra.

Da questo punto di vista ci sono stati dei fenomeni tragici: il pubblico ha difeso l´indifendibile solo perché era il beniamino della propria squadra, il giocatore della propria squadra, il proprio idolo; per cui si reagisce perché si vede rompere il proprio mito di cui si ha il poster in camera quando invece si dovrebbe reagire contro questo mito che ha imbrogliato perché ha falsato le sue possibilità.

Questo meccanismo di non condanna della comunità rende difficile il lavoro degli organi competenti, perché, essendo di solito anche organi politici, tengono anche al consenso della gente; rendono difficile il lavoro del giornalismo che, volendo denunciare certe cose, teme la reazione della tifoseria, di una società, di un club. Questi ultimi si sentono perseguitati e la conseguenza è che boicottano il giornale al punto che nessuno più lo compra e magari viene cambiato il direttore.

Dovremmo assumerci tutti la responsabilità nei confronti dell´etica dello sport e non delegarla solo alle istituzioni che dirigono lo sport proprio perché queste istituzioni sono influenzate dall´opinione pubblica.

Io mi trovo abbastanza in disaccordo con chi sostiene che non si può portare lo sport agonistico nelle scuole perché l´agonismo non va bene.

Coloro che dicono così sono anche gli stessi che spesso e volentieri utilizzano elementi profondamente agonistici per stimolare gli allievi; per esempio lui è bravo e tu no, lui ha otto e tu cinque, che sono elementi agonistici di confronto. Tu sei cattivo e lui buono, a volte lo usiamo anche da genitori e lo usiamo tra fratelli e lo usiamo male; questi elementi di agonismo sono molto più dannosi che nello sport perché l´agonismo dello sport è ovviamente "esplicito" per cui fa meno danni.
La cosa più negativa è che i giovani l´agonismo lo vivono tutti i giorni, per cui non possiamo non educare all´agonismo nello sport e fuori dallo sport. Se non sono i genitori, se non è la scuola, se non è lo stesso "modo dello sport" che educa all´agonismo, i giovani sviluppano la loro idea di agonismo.

La prima regola dell´agonismo è che la persona deve fare tutto il lecito per vincere, ma deve accettare anche di perdere.
Affrontiamo allora il tema della "cultura della sconfitta".

Io penso che un giovane non debba mai avere la cultura della sconfitta; deve voler vincere tutte le volte che può e a tutto quello a cui gioca, ma accettare vuol dire semplicemente "accettare". Fare tutto, ma se perdo lo accetto quindi non divento isterico, non do la colpa agli altri, non vado a cercare motivi che non siano quelli della partita, compreso l´errore arbitrale. Accettare non vuol dire che piace, vuol dire che accetti perché è parte della vita.

Insegnare questo è un elemento fondamentale, perché insegnare a vincere e a perdere vuol dire anche insegnare ad accettare i propri limiti.

Uno dei problemi che gli operatori dello sport si trovano ad affrontare e che peggiora sempre di più è che molti bambini arrivano a giocare e devono accettare certe situazioni: per esempio che giocano meno o che giocano peggio, mentre i genitori gli ha sempre detto che erano i più belli, che erano i migliori.
Ci sono genitori che chiamano campione il figlio, ma perché campione se non ha mai giocato a niente, non ha mai vinto niente, che valore ha? Il bambino arriva e scopre che la mamma e il papà non avevano ragione perché non è il migliore e ce n´è un altro che merita più di lui.

Accettare i propri limiti non significa dire "non valgo", ma "io valgo comunque e se non gioco bene a questo sport giocherò meglio ad un altro e se non giocherò a nessuna cosa vuol dire che avrò bisogno solo di divertirmi e che farò qualcosa d´importante in un altro campo".

Invece molte volte la mentalità è che o vinco o sono una porcheria: questi sono concetti che dobbiamo combattere, pur continuando a sforzarci per vincere.
L´importante è non credere che vincere vuol dire dimostrare che siamo i migliori! Questo è un aspetto molto bello dello sport, perché noi possiamo essere i migliori in una determinata partita, o in un certo campionato, ma la prossima partita e il prossimo campionato iniziano zero a zero.

In altri ambiti non è così: nelle situazioni della vita i punti persi o i punti vinti te li porti dietro per tutta la vita.

Riflettiamo un attimo: quando si vince si crede di aver trovato la verità, il metodo, il modo di vincere e ci crediamo i migliori. Chi invece ha perso, sta cercando tutti i suoi difetti, tutti i motivi per cui non ha vinto; non è davanti allo specchio a guardare come è bello e a compiacersi di come gli altri gli dicono che sia bello perché ha vinto". Chi ha perso si guarda e dice: "non sono così bello, devo migliorare perché ho perso". Lì avviene il cambiamento e il vincitore non è più quello dell´anno prima, ma è un altro.

Non riuscire a vincere le difficoltà porta a quella che potremo chiamare la "cultura degli alibi", cioè il tentativo di attribuire il motivo di un nostro fallimento a qualcosa che non dipende da noi. Di solito, quando non possiamo scaricare la colpa su chi ci sta intorno, ci si rifà anche a cose molto grandi, strutturali, storiche, del genere caratteristiche dei popoli ("Noi italiani siamo così, lo sono nei cromosomi, e allora non c´è niente da fare").

Sono convinto che prima di insegnare a vincere le partite, si debba insegnare a vincere una sfida o delle sfide molto difficili, difficilissime. Difficilissime per due motivi: il primo è perché ci dobbiamo mettere in discussione, il secondo è perché troppe volte non siamo capaci di accettare il nostro avversario.

L´avversario rappresenta i miei limiti e i miei difetti. Se io batto questi due avversari, inizio ad acquisire la giusta mentalità, perché vinco contro di me.
Inoltre devo vincere contro le difficoltà che spesso sono viste solo come limitazione a fare quello che voglio, ma nello sport le difficoltà hanno un ruolo fondamentale, perché hanno lo stesso ruolo delle malattie con i bambini piccoli.

Lo sport è una difficoltà con regole ben precise ed ecco il valore: mi scontro rispettando le regole, non che rispetto le regole perché non c´è scontro. Lo scontro c´è ed è totale, non è solo tecnico, non è solo fisico è psicologico, morale, è uno scontro tra due gruppi di uomini o di donne.

Per prepararmi a questi scontri devo prepararmi alle difficoltà, non devo subirle, devo adattarmi e l´allenamento è tutto un adattamento. Se metto un bilanciere sulle spalle che cosa succede? I muscoli si adattano a quei chili.

Se mi alleno ad una tecnica? Il sistema nervoso centrale si adatta a risolvere quel problema tecnico. Non posso decidere di non buttarmi perché il pavimento non è pulito; devo abituarmi allo scontro affrontando le difficoltà.
Più supero le difficoltà più mi costruisco la giusta mentalità. Il ver livello di vittoria è vincere contro gli avversari, e qui viene il problema della qualità, nostra e degli altri.

Occorre cercare di vincere il più possibile, ma anche non credere a quelli che dicono che il mondo si divide tra vincenti e perdenti! Il mondo si divide tra brave e cattive persone. Questa è la divisione più importante. Poi, tra le cattive persone ci sono anche dei vincenti, purtroppo, e tra le brave persone purtroppo ci sono anche dei perdenti.


Fonte: Giovanni Salbaroli - VEMS www.unvsromagna.it